Da dove nasce questo articolo
Durante l’organizzazione del WordCamp Europe 2023, si è acceso un vivace dibattito intorno al tema della Diversity. Dopo i primi 5 annunci di speaker, un Tweet ha rilevato come solo il 25% fosse donna. Questa osservazione fattuale, basata sul presunto genere individuato in base al nome/foto, ha sollevato reazioni e qualche polemica. Ma, soprattutto, ha fatto nascere molte discussioni in merito all’argomento DEI (Diversity, Equality, Inclusion).
Non ho partecipato alla discussione su Twitter, per lo più in inglese: credo che il tema sia troppo delicato e complesso per essere dibattuto con dei tweet. Inoltre, la mia comprensione della lingua inglese è ancora abbastanza inadeguata per riconoscerne le distinzioni linguistiche e le sfumature culturali.
Ho una formazione in educazione professionale e supervisione educativa, e oltre 30 anni di lavoro nel sociale, e mi considero una femminista. Sono quindi da sempre attenta ai temi legati alla DEI e della questione femminile. A maggior ragione oggi, in Italia, tra le nazioni meno accoglienti in termini di diritti delle minoranze, con una cultura fortemente patriarcale e dove i femminicidi si contano a centinaia all’anno.
E credo sia giunto il momento in cui io scriva i miei pensieri a proposito. Non sono la verità (neanche la mia), ma è il punto dove la mia riflessione è giunta fino ad ora. Non escludo che cambierò opinione su molte cose, e di sicuro il mio punto di vista si arricchirà di nuovi stimoli e considerazioni. Poiché uno dei miei privilegi è conoscere persone meravigliose, attive su questi temi, le cui riflessioni mi permettono di crescere e con cui il confronto è sempre aperto.
Perché non voglio essere inclusiva
Parto da qui: dal concetto di inclusione.
Quando si parla di DEI, spesso si sostiene che dovremmo includere le diversità. Anche io ho parlato di inclusione, finché grazie alla mia bolla su internet, ho scoperto Fabrizio Acanfora, che si definisce Neurodivergent Advocate, divulgatore, scrittore e conferenziere, docente universitario, pianista e clavicembalista, ex costruttore di clavicembali senza rimpianti.
Parlando di inclusione, dal suo osservatorio di persona neurodivergente, sottolinea come il concetto di inclusione afferisce a uno squilibrio di potere, dove la maggioranza può decidere se e come includere e le minoranze che si trovano a subire questo processo spesso in modo passivo, o con poca possibilità di portare il proprio punto di vista.
Al termine maggioranza, io preferisco quello di gruppo dominante* perché, qui, non è una questione di numeri ma di potere. Gruppo dominante è l’insieme di coloro che hanno il potere di decidere e attuare (o far attuare) le decisioni.
Il potere di includere
Nel processo di Inclusione sociale anche se il gruppo dominante è animato dalle migliori intenzioni, lo squilibrio di potere rimane.
Ci si apre per includere chi sta fuori, ma in base a quale punto di vista? Il processo è condiviso? C’è un percorso di rinegoziazione delle regole del gruppo?
Il potere di includere (o escludere) è in mano al gruppo dominante che decide quali sono condizioni e regole per poter essere inclusi. E la persona che viene inclusa ha poco spazio per dire la sua, e anche quando esprime il proprio punto di vista, per lo più non viene ascoltata e le sue opinioni e richieste non vengono accolte.
La conclusione è quasi sempre che le persone che vengono incluse si devono adeguare alle aspettative di chi include, ossia di chi ha il potere.
Accettare e valorizzare le differenze
Acanfora propone di sostituire inclusione con il concetto di convivenza delle differenze,
termine neutrale che presuppone pari dignità per ciascun gruppo socioculturale e ciascuna persona. Convivere vuol dire rispettarsi, andarsi incontro, preoccuparsi delle esigenze di chi è intorno a noi, mettere da parte l’orgoglio e ammettere che la nostra visione del mondo è guidata da pregiudizi che spesso non siamo coscienti di avere, e che prestando attenzione alla narrazione della realtà che facciamo a noi stessi e al mondo possiamo contribuire al benessere di tutta la società.
fonte: https://www.fabrizioacanfora.eu/la-convivenza-delle-differenze/
È solo un problema linguistico? Forse, ma, come è noto, il linguaggio forgia il pensiero. Ciò che non ha nome non esiste, e come esprimiamo i concetti dice molto di come pensiamo, di cosa crediamo, della realtà che costruiamo.
Da alcuni anni si è sviluppato un intero movimento di persone che lavorano sul cosiddetto linguaggio inclusivo, e di recente ho avuto modo di seguire una diretta social, dove si parlava proprio di linguaggio inclusivo. Durante la discussione è emerso anche qui il dubbio se smettere o meno di usare l’aggettivo Inclusivo.
In quell’occasione ho pensato che Accogliente potesse essere un buon sostituto.
Ecco, io vorrei essere Aperta ed Accogliente, per poter incontrare le altre persone e insieme creare le basi per una società più equa, dove a ciascuna persona è riconosciuto il diritto di essere come è e come vuole essere, e abbia diritti civili e possibilità sociali (ed economiche) per realizzare i propri sogni.
E, quindi, abbandoniamo il termine Inclusione?
No, almeno, non per ora. Da qualche parte si deve cominciare, e Inclusione è un termine molto usato nella discussione DEI.
E anche promuovere un Linguaggio Inclusivo è il modo che al momento abbiamo di diffondere una maggiore consapevolezza sull’uso delle parole, e della necessità di accogliere le differenze nel nostro punto di vista e nel nostro modo di comunicare.
Però propongo di iniziare a usare il termine in modo puntuale, circostanziandone l’uso e riportandolo al suo significato originale (da Treccani: L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto. Es includere un argomento in una discussione).
Soprattutto mi piacerebbe vedere superato l’uso del termine Inclusione in ambito sociale.
Di normalità, etichette, privilegi e barriere
La prima parola dell’acronimo DEI, è diversità. E quando parliamo di diversità non possiamo non contrapporla a normalità.
Ma cosa è la normalità?
Il concetto nasce nel campo geometrico statistico e deriva dal latino norma (squadra, strumento per il disegno). In statistica la norma (o moda) è il valore che compare più frequentemente nel gruppo preso in esame.
A partire dalla metà del 1800, e poi sempre più nel secolo successivo, quando iniziano gli studi statistici sulla popolazione e i processi di burocratizzazione, il concetto di normalità si estende nel linguaggio comune, e si inizia a usare l’aggettivo normale per indicare tutto ciò che è consueto, ordinario.
L’uso delle statistiche come base per le scelte politiche, e la necessità di regole di convivenza nei grandi centri urbani, ha contribuito, attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, alla diffusione di modelli di comportamento e canoni fisici e sociali basati sulla maggioranza. Il bisogno umano di socialità e appartenenza ha contribuito all’identificazione, o al desiderio di identificazione, con la normalità standardizzata.
In questo contesto, tutto ciò che non rientra nello standard, nella normalità, rappresenta una minaccia, che mette in crisi i valori e, quindi, la base stessa di una società.
Tutti i comportamenti non conformi alla norma vengono stigmatizzati come devianti e vanno corretti. Tutte le persone che non rispondono ai criteri fisici e sociali definiti normali, vengono isolate e considerate diverse.
Etichette
E vengono etichettate. Perché se le etichettiamo, le definiamo e, in qualche modo le riconosciamo e le controlliamo. Le etichette ci riportano a una realtà conosciuta, e, pertanto, tranquillizzante. Se le etichettiamo le possiamo identificare e isolare.
La diversità fa paura. Perché mette in crisi i nostri modelli e le nostre certezze, perché ci obbliga a confrontarci con altri modelli, perché ci fa sentire fragili.
Accettare che la normalità esiste solo come costrutto sociale e statistico, e partire dalla considerazione che ogni persona è unica e speciale, è il primo passo per la vera integrazione e convivenza delle differenze.
Ma se all’apparenza è così semplice, cosa è che ci blocca? I nostri privilegi, credo.
Privilegi
Mi sono avvicinata al concetto di privilegio, grazie alla mia amica Alice Orrù e alla sua bellissima newsletter Ojalà. Nel numero 7 di Ojalà, Alice parla di Tatiana Mac e del suo talk, How Privilege Defines Performance.
Privilegio significa avere o vedersi garantiti dei vantaggi, dei trattamenti speciali o un’immunità solo per il fatto di rientrare in una certa categoria di persone.
Non voglio qui addentrarmi nel discorso (che però vale la pena di approfondire), ma credo che la paura di perdere i propri privilegi sia alla base di molte discriminazioni.
Se accetto di aprirmi alla diversità, se accetto il principio di equità e diritti civili per chiunque, allora devo accettare di perdere i miei privilegi, o, quantomeno, di condividerli. Chi è disposto a farlo?
Partire dal riconoscimento del muro dei propri privilegi e scegliere di condividere quei privilegi (o di smantellare il muro) è il primo passo dell’equità.
I privilegi costruiscono muri, che formano barriere. Abbatterne un pezzetto per allargare lo spazio interno e includere non risolve, come ho detto sopra, lo squilibrio di potere.
E, quindi?
Abbattere le barriere
Io credo che il primo passo sia abbattere le barriere, tutte le barriere.
Non includere in uno spazio, ma aprire lo spazio, togliendone i confini.
Comunità aperte, eventi accoglienti: domande
Come faccio a togliere le barriere in un gruppo, o in un evento?
Non ho una risposta, ma molte domande. Partire dalle domande mi aiuta a identificare le barriere e a trovare soluzioni.
1. Barriere fisiche
Queste sono le più semplici da identificare, ma non sono scontate.
- Lo spazio che uso per l’evento (o per i nostri incontri) ha limiti fisici che ostacolano la mobilità?
Qui non pensiamo solo a chi si muove con ausili per la mobiità, ma anche a persone che hanno difficoltà motorie temporanee per cui scale e grandi distanze sono ostacoli. - Lo spazio che uso è troppo/poco luminoso? Può ostacolare la partecipazione di persone ipersensibili alle luci, oppure con visione ridotta?
- Lo spazio che uso è troppo rumoroso?
- Gli strumenti che uso sono accessibili a chiunque, anche a chi non può usare le mani, oppure non sente?
- I bagni sono fruibili anche per persone che non si identificano nei generi binari uomo/donna?
- Ci sono luoghi appartati in cui le persone possono rilassarsi e avere un momento di silenzio?
- Ci sono spazi per allattare, accudire i neonati?
- La segnaletica interna è chiara e sufficiente? Uso simboli comprensibili per chiunque?
- (se c’è qualcosa da mangiare) Sto garantendo pasti speciali, che tengano conto di allergie, intolleranze, preferenze alimentari, norme religiose?
- …
2. Barriere linguistiche
- Il linguaggio che uso è sufficientemente accogliente e aperto alle pluralità?
- Uso termini chiari, diretti e non gergali?
- (Per eventi) Le persone si sentono sufficientemente accolte e a proprio agio nel proporsi come speaker? La Call for speaker usa un Linguaggio Accogliente e rispettoso delle pluralità? Quali dati chiedo nella Call e come li chiedo?
- Quali sono gli ostacoli che frenano le persone a proporsi? Come possiamo sostenerle? (es. Percorsi di public speaking, mentorship, …)
- Se ci sono persone di lingua diversa, posso attivare un servizio di trascrizione? E di traduzione?
- Come pubblicizzo l’evento, quali termini uso?
- …
3. Barriere economiche e sociali
- Come faccio a sostenere la partecipazione di chi non ha possibilità economiche, organizzative o logistiche?
- Come faccio a far conoscere l’evento (community, iniziativa, …) al di fuori della mia cerchia sociale?
- …
4. Barriere culturali
Queste sono le più difficili da identificare e su cui intervenire.
- La domanda che mi pongo qui, è: c’è qualcosa che dò per scontato?
- Cosa può costituire un problema per le altre persone (es: immagini usate nelle slide)?
- Cosa mi dà fastidio e mi porta a reagire con rabbia o a chiudermi sulla difensiva?
- …
L’elenco non è esaustivo, e sicuramente va personalizzato e ampliato, a seconda delle circostanza. Ma è un inizio, secondo me.
Rispetto, ascolto, confronto e gentilezza
L’incontro e l’accoglienza delle diversità non sono facili, e procede per approssimazioni ed errori. Ma dagli errori si impara, e la volta successiva si farà meglio.
L’atteggiamento con cui voglio affrontare le discussioni (e non solo rispetto ai temi DEI) è guidato da quattro parole chiave:
- Rispetto per le altre persone,
- Ascolto, attivo, vero e sincero,
- Confronto sempre aperto ad accogliere le pluralità e i diversi punti di vista (con attenzione ai miei bias)
- e Gentilezza, che, come è noto, è l’unica cosa che potrà salvare il mondo.
Ringraziamenti
Questo articolo ha avuto un lunghissimo periodo di gestazione, e numerose revisioni. Un grazie di cuore va a tutta la community italiana di WordPress, con cui mi confronto spesso su questi temi. In particolare, Stefano Cassone, Lidia Pellizzaro, Margherita Pelonara, Eleonora Anzini, Francesca Marano.
* Un ringraziamento speciale, a Alice Orrù. Le sue preziose osservazioni e lettura critica delle bozze mi hanno aiutata a ripensare ad alcune affermazioni (per esempio il concetto di gruppo dominante vs maggioranza) e a rivedere la mia posizione nei confronti della necessità di continuare a usare il termine Inclusivo, anche se imperfetto.
Ed infine, una menzione speciale a Piermario Orecchioni, che mi ha aiutato nella predisposizione della versione inglese di questo articolo. Averlo conosciuto, poter godere della sua gentilezza, disponibilità, calma, senso dello humor, intelligenza, e poterlo chiamare amico è un altro dei miei privilegi.
Articolo interessante
grazie davvero, Gianluca! So che ho ancora molto da ragionare ed apprendere sul tema, e ogni confronto mi farebbe molto piacere 🙂